NEMESIS
Il poema pubblicato per la prima volta sul numero 7 di
The Vagrant, (giugno 1918), ha dato
da pensare a molti. L’origine è dibattuta e anche lo scenario che rappresenta
ancor oggi è oggetto di ipotesi. In una lettera all’amico Rheinhart Kleiner
dell’8 novembre 1917, Lovecraft scrive che Nemesis è frutto dei suoi sogni e
che fu vergata «nelle sinistre prime ore d’una cupa mattina del giorno dopo
Ognissanti, il che potrebbe dar conto del tono e dell’atmosfera. Presenta il
concetto, accettabile per la mente ortodossa, che gli incubi costituiscano la
punizione inflitta all’anima per colpe commesse in una precedente incarnazione
– forse milioni d’anni prima!».
Questo accenno alla reincarnazione è la prova che Lovecraft
fosse un vero occultista e che le sue opere sono dotate di diversi livelli di
lettura?
Lasciamo a voi l’ardua sentenza con un’inaspettata chicca
musicale finale.
Nemesis
Oltre le cupe porte del sonno
vigilate dai ghoul,
Oltre l'abisso della luna
calante della notte,
ho vissuto innumerevoli vite,
ho sondato ogni cosa col mio
sguardo;
e combatto gridando disperato
ad ogni aurora spinto dal terrore nella follia.
Ruotavo con la Terra al mattino,
quando il cielo era un
turbine di fiamma;
ho visto l’universo oscuro sbadigliare
là dove pianeti neri vagano
senza scopo,
vagano nell’orrore
inavvertiti, senza fama né nome né coscienza.
Ho aleggiato su mari
sconfinati,
sotto sinistri cieli
grigio-piombo
lacerati da folgori
improvvise,
che risuonano di grida
isteriche,
con gemiti di dèmoni
invisibili emersi dalle acque di smeraldo.
Come un daino ho sostato
sotto gli archi
delle grandi foreste
primordiali,
ove le querce avvertono la
presenza marcescente
e ho camminato in luoghi evitati
dagli spettri,
e alla cosa che mi circonda
sono sfuggito, a colei che percola dai rami.
Mi sono imbattuto in montagne
piene di caverne
Che sorgono sterile e desolate
dalla pianura,
Ho bevuto dalle fontane di
fetida nebbia
Che trasudano giù alla palude;
ed in fonti sulfuree
maledette ho visto cose che non oso veder di nuovo.
Ho visto un gran palazzo
cinto d’edera,
nelle sue sale vuote sono
entrato,
dove la luna alta sulle valli
proietta strane ombre sulle
mura:
apparenze deformi ed
intrecciate, il cui ricordo non oso richiamare.
Ho scrutato nel caseggiato
meravigliato
Ho osservato i prati selvaggi
intorno,
Al villaggio dai molti tetti sotto
La maledizione di una terra sepolcrale;
E da file di marmo bianco
scolpito dalle urne ascolto attentamente il suono.
Ho infestato le tombe
millenarie,
ho volato su vette di terrore
là dove infuria l’Erebo
fumante,
dove s’ergono desolati picchi
innevati;
e in regni dove il sole del
deserto consuma quanto non può rallegrare.
Ero già vecchio quando i
Faraoni
ascesero sul trono
ingioiellato presso il Nilo;
ero vecchio in quelle epoche lontane
in cui io e solo io davo
corpo al male,
e l’Uomo ancora incontaminato
e felice dimorava nell’isola artica.
Oh, grande fu il peccato del
mio spirito,
E grande è la portata del suo
destino;
Neppure la pietà del cielo può
rallegrarlo,
Né tregua può trovare nella
tomba:
giù gli eoni infiniti arrivano
battendo le ali di tristezza spietata.
Oltre le cupe porte del sonno
vigilate dai ghoul,
Oltre l'abisso della luna
calante della notte,
ho vissuto innumerevoli vite,
ho sondato ogni cosa col mio
sguardo;
e combatto gridando disperato
ad ogni aurora spinto dal terrore nella follia.
Così bello, così descrittivo;
il poema descrive lo stupore, la nascita dell'universo, del nostro mondo
secondo la prospettiva del grande avversario dell'umanità. All'interno della
Bibbia questo potrebbe essere chiamato Satana, Lucifero, Belzebù ... ecc; ma
all'interno dei Miti di Cthulhu potrebbe essere il potente Nyarlathotep?
Chi può dirlo?
Curiosamente la versione
inglese originale di “Nemesis”, scritta oltre cento anni fa, ha la stessa metrica
della canzone di Billy Joel intolata “Piano Man.”
Ecco la stesura originale di
Nemesis e di seguito il link per ascoltarla:
Nemesis
Thro’ the ghoul-guarded gateways of slumber,
Past the wan-moon’d abysses of night,
I have liv’d o’er my lives without number,
I have sounded all things with my sight;
And I struggle and shriek ere the daybreak, being
driven to madness with fright.
I have whirl’d with the earth at the dawning,
When the sky was a vaporous flame;
I have seen the dark universe yawning,
Where the black planets roll without aim;
Where they roll in their horror unheeded, without
knowledge or lustre or name.
I had drifted o’er seas without ending,
Under sinister grey-clouded skies
That the many-fork’d lightning is rending,
That resound with hysterical cries;
With the moans of invisible daemons that out of the
green waters rise.
I have plung’d like a deer thro’ the arches
Of the hoary primordial grove,
Where the oaks feel the presence that marches
And stalks on where no spirit dares rove;
And I flee from a thing that surrounds me, and leers
thro’ dead branches above.
I have stumbled by cave-ridden mountains
That rise barren and bleak from the plain,
I have drunk of the fog-foetid fountains
That ooze down to the marsh and the main;
And in hot cursed tarns I have seen things I care not
to gaze on again.
I have scann’d the vast ivy-clad palace,
I have trod its untenanted hall,
Where the moon writhing up from the valleys
Shews the tapestried things on the wall;
Strange figures discordantly woven, which I cannot
endure to recall.
I have peer’d from the casement in wonder
At the mouldering meadows around,
At the many-roof’d village laid under
The curse of a grave-girdled ground;
And from rows of white urn-carven marble I listen
intently for sound.
I have haunted the tombs of the ages,
I have flown on the pinions of fear
Where the smoke-belching Erebus rages,
Where the jokulls loom snow-clad and drear:
And in realms where the sun of the desert consumes
what it never can cheer.
I was old when the Pharaohs first mounted
The jewel-deck’d throne by the Nile;
I was old in those epochs uncounted
When I, and I only, was vile;
And Man, yet untainted and happy, dwelt in bliss on
the far Arctic isle.
Oh, great was the sin of my spirit,
And great is the reach of its doom;
Not the pity of Heaven can cheer it,
Nor can respite be found in the tomb:
Down the infinite aeons come beating the wings of
unmerciful gloom.
Thro’ the ghoul-guarded gateways of
slumber,
Past the wan-moon’d abysses of night,
I have liv’d o’er my lives without
number,
I have sounded all things with my sight;
And I struggle and shriek ere the
daybreak, being driven to madness with fright.
Sentire per credere: