giovedì 4 dicembre 2025

 Oltre il Velo di R’lyeh: Lovecraft, il Cosmo e l’Alchimia Nera del Moderno





Quando Howard Phillips Lovecraft sollevò per la prima volta la penna verso il cielo e ne scrutò l’indifferente immensità, intuì una verità che avrebbe divorato ogni consolazione umana: l’universo non è fatto per noi. Non c’è teleologia, non c’è divinità benevola, non c’è destino. Esiste soltanto la vertigine del cosmo. Da quella vertigine nacque ciò che oggi chiamiamo – in modo forse troppo comodo – Cthulhu-Mythos.

Eppure, quel mito non fu mai un mito nel senso tradizionale: Lovecraft non costruì un pantheon per fondare religioni, ma sembra per dissolverle. Forse possiamo affermare, come molti sostengono, che il suo era un anti–mito, una parabola atea mascherata da apocalisse. Eppure il destino di ogni mito è sfuggire al suo creatore. E così, mentre Lovecraft cercava di dimostrare l’insignificanza dell’uomo, i suoi lettori iniziarono a scorgere in quelle ombre un segreto più profondo: e cominciarono a domandarsi se fossero vere.

Il Cosmo secondo Lovecraft: ateismo come rivelazione nera
S. T. Joshi riferisce che Lovecraft fu un materialista radicale, influenzato dalla visione meccanicistica di Ernst Haeckel, dal nichilismo di Nietzsche e dalle correnti scientifiche del suo tempo. L’universo, per Lovecraft, era un’enorme macchina senza scopo; un organismo cieco che non presta alcuna attenzione ai desideri dei suoi componenti.
Da questa rivelazione scaturì il suo capolavoro concettuale: l’arte cosmica non-soprannaturale.
I suoi mostri non erano magie, né demoni: erano fenomeni naturali così vasti e antichi da sembrare sovrannaturali. L’orrore nasceva dalla differenza di scala, non dall’invocazione dell’occulto.
Lovecraft, con una genialità che oggi appare quasi profetica, escogitò allora una strategia letteraria di assoluta modernità: la fusione ossessiva tra realtà e finzione.
Coordinate geografiche, articoli di giornale inventati, manoscritti fittizi, testi eruditi realmente esistenti affiancati a libri immaginari - tutto serviva a creare un effetto di autenticità progressiva. Un lettore attento poteva, passo dopo passo, convincersi che forse il Necronomicon esisteva davvero. Che forse i racconti erano resoconti. Che forse la Terra non era così nostra come credevamo.
Questa “autenticazione dell’impossibile” divenne il marchio di fabbrica del mito.





Atmosfere come portali: la tecnica iniziatica di H. P. Lovecraft
Per Lovecraft la trama era secondaria: ciò che contava era l’atmosfera. L’atmosfera era il vero portale, la soglia fra ciò che è umano e ciò che preme dall’esterno. La narrazione in prima persona, la presenza di scienziati e studiosi – uomini di ragione travolti dall’irrazionale – e gli incessanti rimandi intertestuali erano strumenti per condurre il lettore verso un luogo di vertigine.
In un certo senso, tutta la narrativa di Lovecraft è un rito.
Un rito di smantellamento dell’ego umano.
Un rito di esposizione all’Abisso.
Un rito che prepara al crollo mentale definito da Robert Price “cosmic fear”.
E come ogni rito, produce effetti. Anche indesiderati.

Quando il Mito si vendica: la mutazione esoterica del retaggio lovecraftiano
Lovecraft morì come un ateo convinto, eppure la sua opera sopravvisse come un seme in un terreno imprevedibile. Il primo responsabile della mutazione fu il suo editore postumo, August Derleth, che reinterpretò il Cthulhu-Mythos in termini quasi cristiani: un conflitto morale tra il Bene e il Male, una cosmologia dualistica che Lovecraft avrebbe disprezzato ma che risultava, per molti lettori, irresistibilmente familiare.
Questa deviazione derivò da un fraintendimento clamoroso — il celebre “black magic quote”, una parafrasi errata attribuita a Lovecraft che Derleth reputò autentica.
Eppure fu da quel fraintendimento che germogliò un nuovo mondo.
Derleth rese il mito religiosamente fertile.
E su quel terreno, un nuovo sacerdote attendeva.

Kenneth Grant e l’Adeptato degli Abissi
Kenneth Grant, segretario di Aleister Crowley, alto iniziato dell’Ordo Templi Orientis, e fondatore della sua corrente typhoniana, compì il passo definitivo: assorbì Lovecraft nell’occulto reale.
Nelle sue Typhonian Trilogies Grant affermò che:
Lovecraft non era un semplice scrittore, bensì un canale medianico, un profeta riluttante che trascriveva – in forma mascherata – ciò che percepiva nel mondo dei sogni.
Per Grant, i Grandi Antichi esistevano davvero, come forze qlippotiche che abitano il retro del cosmo, l’ombra dell’Albero della Vita. Yog-Sothoth divenne associato a Choronzon, guardiano di Daath; Cthulhu divenne un signore dell’iniziazione abissale. Il Necronomicon non era più un’invenzione: era un grimorio distorto, filtrato attraverso la mente di un uomo terrorizzato dalla propria memoria karmica.
Grant non si limitò a interpretare: iniziò rituali, fondò ordini (come l’Esoteric Order of Dagon), influenzò intere correnti magiche come il Dragon Rouge e il Voudon-Gnostic di Michael Bertiaux.
Lì dove Lovecraft vedeva solo nichilismo, l’esoterismo vide via di potenza.
Il mito si era reincarnato.

Dalla Pagina al Culto: la “Lovecraft-Magic”
Negli anni ’70 il processo giunse a maturazione:
Lovecraft divenne parte integrante di cerimoniali di ritualistica caotica, di ordini magici dediti al contatto con entità extradimensionali. Opere come il Simon Necronomicon – nato come burla e diventato oggetto di culto – dimostrano quanto il limite tra fiction e religione possa dissolversi rapidamente.
Oggi la Lovecraft-magic si estende dal neopaganesimo dark alla chaos magick, fino a comunità iperreali che considerano i Grandi Antichi maschere archetipiche del Sé profondo.
Così, ciò che fu concepito per negare la religione è divenuto religione.
Ciò che fu scritto per demolire il mito è diventato mito.
Gli Abissi hanno senso dell’umorismo.

Conclusione
Ciò che emerge da questo percorso è un paradosso elegante:
Lovecraft creò un mito per negare il sacro.
Derleth lo rese di nuovo sacro, per errore.
Grant lo trasformò in sistema religioso operativo.
Le tradizioni magiche contemporanee lo hanno assunto come archetipo vivente.
Come scrisse Frenschkowski, Lovecraft è divenuto autore sia di finzione sia di religione.
Il suo mito, nato rotto, è stato “riparato” dall’occultismo contemporaneo, riconsegnato non alla ragione ma alla notte dello spirito.
Forse perché il moderno, nella sua freddezza, aveva esiliato qualcosa:
il selvaggio, l’irrazionale, il bestiale, il delirante, il visionario.
I Grandi Antichi sono il ritorno di ciò che abbiamo rimosso.
Il loro risveglio non è astronomico — è psicologico.
E forse, in fondo, Lovecraft lo sapeva.

martedì 11 novembre 2025


 Ci sono incontri che la storia registra appena, e che proprio per questo sembrano circondati da un alone di inevitabilità. Il rapporto, reale ma poco noto, tra H. P. Lovecraft e Harry Houdini appartiene a questa categoria di legami inattesi e affascinanti. Lovecraft e Houdini Indagano prende le mosse proprio da questo spunto storico e lo trasforma in un racconto epistolare capace di unire due mondi solo in apparenza inconciliabili: l’immaginazione cosmica del Solitario di Providence e l’approccio razionale dell’illusionista più famoso del suo tempo.

Ambientato nel gennaio del 1924, il romanzo costruisce un fitto scambio di lettere che diventa il pretesto per immergere il lettore in un’America attraversata da superstizioni, sedute spiritiche e medium pronti a sfruttare il dolore altrui. Da Arkham — luogo simbolico più che geografico — Lovecraft riferisce a Houdini le sue indagini su una setta di spiritisti attiva nel New England, un ambiente fatto di riti inquieti e zone d’ombra che mettono in discussione ogni certezza. Houdini, fedele alla sua battaglia contro truffatori e falsi profeti, replica con un caso altrettanto misterioso: quello di Lady Evangeline, figura affascinante e pericolosa, la cui capacità di evocare i morti sembra essere solo la punta di un inganno molto più insidioso.

La forza del racconto risiede nella dialettica tra i due protagonisti. La loro corrispondenza diventa un terreno in cui si misurano due visioni del mondo: da un lato la mente analitica e smascheratrice di Houdini, dall’altro la sensibilità visionaria di Lovecraft, aperta a intuizioni che sfiorano l’abisso. Nel loro scambio prende forma un intreccio di dubbi, rivelazioni e timori che oscilla tra logica e mito, tra la concretezza dell’indagine e l’irruzione dell’inspiegabile.

Il lettore viene condotto in un percorso popolato da falsi veggenti, manipolazioni psicologiche, riti oscuri e presenze che sembrano uscite più dal subconscio che dal mondo sensibile. Man mano che le lettere si susseguono, la tensione cresce, lasciando emergere l’idea di un male sottile, insinuante, capace non solo di confondere i sensi ma di minare la percezione stessa della realtà.

Quello che distingue Lovecraft e Houdini Indagano è la capacità di amalgamare sapientemente materiali storici, fantasia narrativa e suggestioni gotiche. Il carteggio immaginario diventa così una lente attraverso cui esplorare l’epoca, ma anche un dispositivo letterario che dà vita a un dialogo sorprendentemente credibile tra due icone del secolo scorso. Ne nasce un racconto che conquista gli appassionati di narrativa fantastica, affascina chi ama i retroscena storici e soddisfa chi cerca storie in cui realtà e illusione si confondono fino a diventare indistinguibili.

Fra atmosfere nebbiose, ambienti carichi di tensione e svelamenti graduali, il lettore viene trascinato in una ricerca che non riguarda soltanto i fenomeni apparentemente paranormali, ma anche ciò che si nasconde sotto la superficie della percezione. Un viaggio che celebra lo spirito degli anni Venti e restituisce, in forma narrativa, l’incontro tra due menti destinate a incrociarsi in un territorio comune: quello in cui nasce e cresce il mistero.

venerdì 7 novembre 2025

Dai Miti di Cthulhu ad Archive 81: l’eco cosmica di Lovecraft nell’horror contemporaneo



Proseguendo nella nostra cavalcata tra le serie tv più Lovecraftiane non poteva mancare "Archive 81". Sappiamo bene che nel vasto panorama dell’horror moderno, poche figure sono state tanto pervasive e inafferrabili quanto quella di H. P. Lovecraft. altrettanto bene sappiamo che "il Sognatore  di Providence" non ha soltanto inventato mostri ma ha costruito una nuova percezione dell’universo, in cui l’uomo è un frammento insignificante, immerso in un cosmo indifferente e ostile. La sua poetica del cosmicismo, come lui stesso la definiva, è diventata la lente con cui leggere non solo l’orrore, ma anche la fragilità della conoscenza umana.

Quasi un secolo dopo, questa visione continua a vibrare in forme narrative apparentemente lontane. È il caso di Archive 81, serie Netflix ideata da Rebecca Sonnenshine, che unisce l’orrore soprannaturale all’estetica delle found footage e della tecnologia analogica. Dietro la storia di videocassette bruciate, di culti misteriosi e di entità aliene che si insinuano attraverso lo schermo, si nasconde la stessa vertigine metafisica che Lovecraft aveva descritto nei suoi racconti più celebri: Il richiamo di Cthulhu e I sogni nella casa stregata.

Per comprendere quanto Archive 81 debba al Maestro di Providence, occorre tornare ai fondamenti del suo universo narrativo.

Ne "Il richiamo di Cthulhu", Lovecraft costruisce una mitologia in cui l’umanità è solo un’infinitesima frazione di un cosmo popolato da forze antiche e indifferenti. Gli esseri che abitano queste dimensioni — i “Grandi Antichi” — non sono spiriti o demoni, ma entità materiali e amorali, la cui semplice esistenza basta a incrinare la nostra concezione della realtà.

Nel racconto, un antico culto venera Cthulhu, una creatura che giace addormentata nelle profondità dell’oceano e la cui riemersione segnerebbe l’inizio di una nuova era. La sua influenza si propaga attraverso i sogni dei sensibili, portando pazzia e ossessione: la mente umana non può sostenere la verità cosmica.

Ne "I sogni nella casa stregata", Lovecraft approfondisce questa idea spostandola sul piano dimensionale: il protagonista Walter Gilman, attraverso la geometria non euclidea, riesce ad attraversare i confini dello spazio-tempo, solo per trovarsi di fronte a un orrore che sfugge a ogni principio razionale.

In entrambi i casi, il confine tra scienza e occulto è sottile, e l’orrore nasce proprio dal momento in cui il pensiero umano tenta di oltrepassarlo. È qui che il “materialismo” lovecraftiano — la convinzione che anche il soprannaturale sia spiegabile come parte del mondo naturale — si fonde con la metafisica del terrore.

"Archive 81" parte da un presupposto semplice: un archivista video, Dan Turner, viene incaricato di restaurare vecchie videocassette danneggiate da un incendio nel misterioso condominio Visser. Quelle cassette, girate nel 1994 dalla dottoranda Melody Pendras, documentano la vita degli inquilini dell’edificio — una comunità che nasconde una setta decisa a evocare una divinità interdimensionale di nome Kaelego.



Da questa trama, apparentemente convenzionale, Sonnenshine costruisce un intreccio di piani temporali, dimensioni parallele e suggestioni filosofiche. Come in Lovecraft, la conoscenza è il primo passo verso la dannazione: Dan, man mano che restaura i nastri, non solo scopre la verità dietro l’incendio del Visser, ma inizia a interagire con ciò che i nastri contengono, fino a varcare lui stesso il confine tra mondi.

L’analogia con I sogni nella casa stregata è evidente: se Walter Gilman attraversava i confini del reale attraverso le geometrie oniriche, Dan lo fa attraverso le immagini registrate.

Lo schermo diventa la nuova finestra sull’ignoto, il medium tecnologico che sostituisce il sogno. Guardando i nastri, Dan non è più solo un restauratore, ma un viaggiatore cosmico, un involontario esploratore di una realtà che non può comprendere.

Le videocassette assumono il ruolo dei sogni lovecraftiani: comunicano attraverso il tempo, annullano i limiti dello spazio e, soprattutto, alterano la mente di chi le osserva. La discesa nella paranoia di Thomas Bellows, il predecessore di Dan, ricorda i visionari che nei racconti di Lovecraft sprofondano nella follia dopo aver visto troppo. In entrambi i casi, la conoscenza è un contagio.

Oltre alla struttura narrativa, "Archive 81" eredita da Lovecraft anche la sua rappresentazione dell’occulto.

La Vos Society, la setta che venera Kaelego, incarna l’archetipo del culto lovecraftiano: antiche radici, rituali sanguinosi, idoli di pietra e una lingua misteriosa. I loro canti — “Due mondi come uno, quando il cielo notturno brucia…” — riecheggiano le formule arcaiche di R’lyeh.

Come nel racconto in cui l’ispettore Legrasse scopre la statua di Cthulhu durante un rituale in Louisiana, anche qui il simbolismo passa attraverso oggetti materiali: statue, sale rituali, strumenti astrologici. La pietra scolpita di Kaelego, con la sua anatomia mostruosa e ambigua, è quasi un gemello del Cthulhu lovecraftiano.

Sonnenshine, tuttavia, compie un passo ulteriore: collega il culto non solo alla paura, ma anche al desiderio di consolazione. I seguaci non sono fanatici disumani, ma persone ferite — come Iris Vos, che tenta il rituale per riavere il figlio perduto. L’orrore nasce qui da una motivazione umana, non dalla semplice sete di distruzione.

Lovecraft avrebbe disapprovato questo impulso empatico: nel suo mondo, l’universo è indifferente al dolore umano. Ma proprio questa differenza segna la forza contemporanea della serie, che traduce il cosmicismo in chiave emotiva.

Un’altra eredità diretta del mondo lovecraftiano è la fusione tra scienza, spiritualismo e mistica.

Rebecca Sonnenshine ha dichiarato di essersi ispirata al revival spiritualista degli anni ’20, quando, dopo la Prima Guerra Mondiale, il bisogno di contatto con i defunti si intrecciava alle nuove scienze dell’occulto. Non a caso, la serie cita esplicitamente la Teosofia, il “terzo occhio” e l’influenza delle stelle e delle comete.

In "Archive 81", la cometa Kharon, che assottiglia il velo tra i mondi, svolge la stessa funzione della disposizione astrale in "Il richiamo di Cthulhu": un ordine cosmico che, una volta allineato, permette il ritorno del divino.

L’idea che l’universo sia un sistema di forze cieche, ma interconnesse, attraversa tanto la letteratura di Lovecraft quanto la spiritualità novecentesca. La serie ne fa un’allegoria del nostro tempo: un’epoca in cui la tecnologia — le videocassette, gli schermi, la rete — è il nuovo medium del trascendente.

Eppure, ciò che rende "Archive 81" un vero erede dell’orrore lovecraftiano non è soltanto la presenza di mostri o rituali, ma la sua visione epistemologica.

Lovecraft concepiva l’orrore come una forma di conoscenza: la scoperta che il mondo è infinitamente più grande, indifferente e incomprensibile di quanto possiamo sopportare. Dan Turner, come molti protagonisti di Lovecraft, diventa un testimone di questa consapevolezza.

Nel momento in cui attraversa la soglia tra i mondi, non solo incontra il mostruoso, ma si confronta con il limite stesso della percezione umana.



In questo senso, "Archive 81" aggiorna il messaggio del cosmicismo: non più la paura dell’universo, ma la paura di comprendere troppo. L’orrore nasce dal gesto conoscitivo, dal tentativo di decifrare l’ignoto attraverso la tecnologia, la memoria, l’immagine.

Lovecraft scriveva che “la più antica e potente emozione dell’uomo è la paura, e la più antica e potente forma di paura è la paura dell’ignoto.”

"Archive 81" è, in fondo, un racconto sull’ignoto trasposto nel linguaggio visivo e tecnologico della nostra epoca. Laddove Lovecraft usava manoscritti e sogni, Sonnenshine usa videocassette e monitor. Ma la tensione è la stessa: la curiosità che apre un varco verso il caos.

Attraverso Kaelego, il Visser e i suoi nastri maledetti, la serie ci ricorda che l’orrore non è solo una questione di mostri, ma di prospettiva. In un universo che ci osserva senza vederci, la vera paura non è la morte o la perdita, ma l’invisibilità: la scoperta che la nostra esistenza, come quella dei personaggi di Lovecraft, è solo un riflesso tremolante su un vecchio schermo che qualcuno, altrove, ha appena riavvolto.

lunedì 27 ottobre 2025

H.P. Lovecraft: l’Arco dei Miti di Cthulhu

 


La popolarità di Howard Phillips Lovecraft è in costante crescita. Ha “marchiato” il mondo con i suoi mostri: esseri indescrivibili, geometrie non euclidee e con la sua filosofia radicalmente anti-antropocentrica che, ancor oggi nel 2025, attraversa oggi tutti i generi e le forme artistiche. Per comodità l’evoluzione dei Miti in tre livelli.





IL PRIMO LIVELLO
A un primo livello, gli elementi chiave dell’orrore cosmico o “lovecraftiano” comprendono: mostri disumani, indicibili, inenarrabili, provenienti da altre dimensioni che tentano di penetrare nella realtà umana (o che già esistono nel nostro mondo, ma restano nascosti); società segrete o culti; conoscenze proibite sulla storia dimenticata o indicibile del nostro pianeta e sulle entità che tali gruppi cercano di scoprire, preservare o sfruttare; grimori, tomi e manoscritti che custodiscono questo sapere; e infine i protagonisti, spesso studiosi solitari (forse gli unici veri eroi romantico-byroniani di Lovecraft), che si confrontano con tali elementi e finiscono paralizzati dalla rivelazione o spinti alla follia.
A un secondo livello, emergono gli aspetti filosofici della visione lovecraftiana. Il confronto dei protagonisti con qualcosa di radicalmente altro rivela i tratti del cosmicismo, la filosofia letteraria di Lovecraft.

“Un giorno, il ricomporre frammenti di conoscenze dissociate aprirà spaventose visioni della realtà e della nostra tremenda posizione in essa, tanto che impazziremo per la rivelazione o fuggiremo nella sicurezza di una nuova età oscura.”
Il Richiamo di Cthulhu


Queste parole introduttive di Lovecraft alludono a uno dei cardini del suo pensiero: la consapevolezza che la comprensione umana del mondo è incompleta e limitata dai nostri sensi, dalle nostre capacità e tecnologie. L’idea che millenni di sapere umano possano essere messi di fronte a qualcosa di totalmente nuovo e inconcepibile trova espressione anche in opere come Le montagne della follia ed altri.
Il concetto di mostri “indescrivibili”, incomprensibili ai sensi umani, che violano le leggi fisiche del nostro mondo e possono essere descritti solo per approssimazione, ne è quindi una diretta conseguenza. Quindi possiamo dire che la prosa di Lovecraft genera un divario tra la realtà e la sua accessibilità per noi.
La consapevolezza che non sappiamo abbastanza e che, anche se sapessimo, non potremmo comprendere, unita all’anti-antropocentrismo, costituisce il fondamento dell’orrore cosmico. L’idea che esistano entità e forze al di là della nostra comprensione, indifferenti all’umanità, genera un terrore unico: non quello dell’emozione viscerale di fronte al mostro, ma della realizzazione razionale di un fatto apparentemente scientifico.

Dei indifferenti e miti senza mitologia
Benché Lovecraft chiami a volte queste entità “dei”, è evidente che la sua opera narrativa non sia di natura mitica. I “miti” di Lovecraft non spiegano il mondo, non sono allegorie, e non hanno scopi morali. Da queste osservazioni si possono trarre alcuni punti chiave del suo approccio:
Le entità lovecraftiane sono indifferenti all’umanità; non agiscono per bene o per male.
Non esiste una gerarchia classica tra di esse, eccetto Azathoth, posto al vertice.
Sono materiali, non simboliche, sebbene incomprensibili ai sensi umani.
La loro vera natura e origine restano ignote.
Non comunicano con gli uomini; il loro unico contatto è distruttivo.
Le divinità “benevole” presenti in alcuni racconti appaiono deboli, simboli della fragilità dei sogni e delle tradizioni umane.
Per Robert M. Price, gli esseri extradimensionali o extraterrestri sono definiti “dei” o “demoni” solo perché gli esseri umani non sanno classificarli altrimenti: li venerano o li temono per dare un senso, in termini umani, a ciò che è incomprensibile.

Le fobie terrene di Lovecraft
Eppure, la paura che Lovecraft intendeva evocare nei suoi racconti non era solo filosofica. Nelle sue opere si riflettono anche le sue fobie personali, radicate in visioni politiche e culturali che all’epoca galleggiavano in tutta l’East Coast.
I Miti di Cthulhu: Le “versioni” di un universo condiviso
Questo mondo inventato da Lovecraft, la sua mitopoiesi, i suoi dèi alieni, i culti segreti e le dimensioni imperscrutabili, ricorda molto il Ciclo di Re Artù, cui tutti potevano integrare la vastità con testi che entravano subito a far parte del canone arturiano. Certo assomiglia anche a un software. Un codice che, negli anni, ha subito aggiornamenti, patch e riscritture. Ecco che quindi i Miti di Cthulhu si sono aggiornati nel tempo, non con nuove righe di codice, ma con nuovi racconti, interpretazioni e adattamenti che hanno espanso, riscritto o ribaltato la visione di Lovecraft.

Il codice sorgente 
Il Codice Sorgente è l’opera originale di Lovecraft e, poco dopo, del suo “circolo” di autori: Clark Ashton Smith, Robert Bloch, Donald Wandrei, Robert E. Howard, Frank Belknap Long, August Derleth e tanti altri. Lovecraft pone le basi di tutto, la pietra angolare: un lessico comune, una filosofia, e un universo condiviso di orrori cosmici.
A creare il nome I Miti di Cthulhu, a coniare questa etichetta e a diffonderla, reinterpretando l’intero universo lovecraftiano fu proprio Derleth dopo la morte del Sognatore di Providence.

Lovecraft vs. Derleth: due mitologie a confronto
Derleth aveva trasformato Lovecraft.
Laddove Lovecraft descriveva un universo amorale e indifferente, Derleth impose una struttura morale, introducendo una distinzione tra “Elder Gods” (forze del bene) e “Great Old Ones” (forze del male), quasi a voler tradurre il cosmo in chiave cristiana.
Joshi, nella sua monumentale biografia I Am Providence, definì questi tre punti come i “grandi errori” di Derleth:
Gli dèi di Lovecraft non sono elementi naturali (fuoco, aria, acqua, terra).
Non esiste una divisione tra bene e male.
Il mito non ha nulla di cristiano.
In questo senso, possiamo dire che esistono due “Miti” paralleli, anche se rabbrividisco a metterli sullo stesso piano.
C’è l’insignificanza cosmica dei Miti di Lovecraft.
E c’è la revisione moralistica dei Miti di Derleth.

Un canone impossibile
A complicare tutto c’è la questione del canone. Quali racconti fanno davvero parte dei Miti di Cthulhu?
Nel 1972, lo scrittore Lin Carter provò a stabilire dei criteri: per appartenere ai Miti, un racconto doveva ampliare l’universo, non solo citarlo. Tuttavia, lo stesso Carter finì per escludere testi fondamentali come “Il colore venuto dallo spazio” oggi considerato una delle opere più rappresentative di Lovecraft da cui è stato tratto un film diretto da Richard Stanley e il primo volume de I Miti di Arkham.
A quasi un secolo di distanza, non esiste ancora un consenso: ogni autore, editore o fan community costruisce il proprio “canone lovecraftiano” a modo suo. È un universo in continua mutazione, dove la coerenza lascia spazio alla contaminazione creativa.
In ogni modo H. P. Lovecraft non creò solo una mitologia caotica nel vero senso della parola, ma creò un linguaggio del terrore filosofico, che altri — Derleth, Smith, Howard e poi intere generazioni di autori e registi — hanno continuato a tradurre, aggiornare e, a volte, tradire.


IL SECONDO LIVELLO
Va detto subito che dopo la morte di Lovecraft, il suo universo non si spense, tutt’altro, si moltiplicò.
L’orrore cosmico uscì progressivamente dalle pagine dei racconti per insinuarsi nel cinema, nei fumetti, nei videogiochi, nei boardgames e perfino nei giochi di ruolo. Il mito si espanse e, come ogni organismo in evoluzione, cominciò a selezionare e adattare i propri geni narrativi.
Questo nuovo ciclo di vita si muove su due fronti principali:

1 le “remediazioni”, cioè le trasposizioni delle opere originali in altri media;
2 le nuove creazioni “lovecraftiane”, opere ispirate più allo spirito che alla lettera del Mito.

Le prime metamorfosi arrivano già nel 1945, quando The Dunwich Horror diventa un radiodramma.
Negli anni ’50 Lovecraft approda nei fumetti con Experiment… in Death, liberamente ispirato a Herbert West: Reanimator, e nel 1963 esce The Haunted Palace di Roger Corman, ufficialmente tratto da Poe, ma in realtà basato su The Case of Charles Dexter Ward.
Sono adattamenti “fedeli” nel senso più letterale: trasportano i racconti da un media all’altro senza snaturarne il significato originario. Più tardi arriveranno documentari, graphic novel e persino opere in cui Lovecraft stesso diventa personaggio di finzione, un autore che si ritrova perseguitato dalle sue stesse creazioni.
Ma il vero Secondo Livello dei Miti di Cthulhu non è la riproduzione quanto la rielaborazione.
Le nuove opere non si limitano a citare Lovecraft, lo usano come linguaggio, come codice da decifrare e reinventare. Da qui nasce la necessità di distinguere due grandi linee di analisi:

1 Connessione esplicita o implicita con i Miti originari (toponimi, creature, tropi riconoscibili).
2 Uso della filosofia del cosmicismo (l’indifferenza del cosmo, il terrore dell’ignoto) oppure del lore, cioè del “vocabolario” mitico di dèi, culti e libri proibiti.

Da un lato ci sono opere che aderiscono direttamente al canone, come il videogioco Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (2005), che ricrea The Shadow Over Innsmouth con fedeltà maniacale: le strade umide, i volti anfibi, la chiesa di Dagon.
Dall’altro lato troviamo opere che si muovono in modo più sottile, evocando Lovecraft senza nominarlo — come Underwater (2020) di William Eubank, dove i lavoratori di una base abissale scoprono una creatura ciclopica e antica quanto il tempo. Non si parla mai di Cthulhu, ma il suo respiro è ovunque: negli abissi, nel silenzio, nella consapevolezza che l’uomo è irrilevante.

Filosofia vs. lore
Questo asse permette anche un’altra osservazione interessante: le arti “passive” (letteratura, cinema, televisione) tendono a lavorare sulla filosofia del cosmicismo, cercando di riprodurne l’atmosfera e le idee.
Le arti “interattive” (videogiochi, giochi da tavolo), invece, preferiscono manipolare il lore, i segni riconoscibili del mito — Necronomicon, Cthulhu, Innsmouth — come pezzi di un sistema ludico.
Il risultato è spesso paradossale: i videogiochi, pur evocando Lovecraft, finiscono per tradurre l’orrore cosmico in numeri e regole, scontrandosi con la natura stessa del media, fondato sulla razionalità e la possibilità di vincere. Il terrore dell’incomprensibile diventa un livello da superare.
Quello che è certo è che ormai siamo di fronte a un ecosistema in continua espansione, dove ogni nuova opera rimescola i geni dei Miti, spesso senza rendersene conto.


IL TERZO LIVELLO
Oggi dopo decenni di adattamenti e appropriazioni, l’universo lovecraftiano torna a guardarsi allo specchio. È il momento della riflessione e della critica, del confronto con l’uomo dietro il mito, con Howard Phillips Lovecraft e i suoi demoni, non più cosmici ma umani.
In questa nuova versione, gli autori contemporanei usano il Mito non per espanderlo, ma per metterlo in discussione: per rivelarne le ombre ideologiche, il razzismo, la misoginia, la paura dell’altro che permeava la visione del mondo in quel contesto storico sulla East Coast.
Quindi Lovecraft diventa personaggio
Nei romanzi The Night Ocean (Paul La Farge, 2017), Lovecraft Country (Matt Ruff, 2015) e nella trilogia The Courtyard / Neonomicon / Providence (Alan Moore e Jacen Burrows, 2003–2017), Lovecraft non è più un autore onnipotente: è un personaggio fragile, ambiguo, talvolta colpevole.
Le sue lettere, le sue ossessioni, i suoi pregiudizi diventano materia narrativa.
In The Night Ocean, il rapporto tra Lovecraft e Robert Barlow si trasforma in una relazione affettiva, mentre in Providence Moore fa interagire Lovecraft con i suoi stessi mostri e perfino con studiosi reali come S. T. Joshi.
È una letteratura che mette in scena la biografia come finzione, fondendo realtà e mito in un gioco di specchi inquietante.
Questa autoanalisi si accompagna a un gesto politico e culturale: tutto ciò che Lovecraft aveva escluso dai suoi racconti, la sessualità, la mescolanza razziale, la presenza femminile, torna ora come tema centrale.
Eppure, probabilmente, questa è la più grande violazione della filosofia lovecraftiana.
Lovecraft, nel suo orrore cosmico, aveva precisamente distrutto il presupposto umanistico di ogni narrativa precedente: l’idea che l’uomo sia misura di tutte le cose. Nei suoi racconti, l’essere umano non è né colpevole né redimibile, ma semplicemente irrilevante. Il suo fallimento non è morale, ma ontologico: l’universo non si accorge nemmeno della sua esistenza.
Eppure, della molta narrativa contemporanea che “rilegge” Lovecraft sembra volerlo riportare dentro un orizzonte umano, sociale, politico. Le lettere e il pensiero privato dello scrittore diventano materia narrativa; la sua biografia si trasforma in finzione e simbolo. Ma così facendo si sovverte il cuore del suo pensiero.
In The Night Ocean, Providence, Rat God o Lovecraft Country, la prospettiva cosmica viene sostituita da una prospettiva psicologica, etica o identitaria. L’orrore non viene più dall’abisso senza volto, ma dall’interno della società o della coscienza.
Si afferma che questo recupero dell’umano, con i suoi traumi, la sua memoria, la sua colpa, renda l’opera più “politica” o “responsabile”. Ma è proprio qui che avviene il tradimento: nel momento in cui si riconduce tutto all’uomo, si nega la dismisura che era al centro dell’universo lovecraftiano.
Quindi questo terzo livello non amplia i Miti ma li capovolge, forse in maniera ancor peggiore di quanto aveva fatto decenni prima Derleth.

Sento il bisogno di ricordare che, là dove Lovecraft aveva dissolto l’antropocentrismo - mostrando un mondo indifferente, dove l’uomo è un accidente biologico tra infiniti abissi - i nuovi autori ricostruiscono l’uomo come misura del male e del bene, come centro del racconto.
L’universo, che per Lovecraft non aveva volto, torna ad averne uno umano, troppo umano.
In questo senso, la “mitologia della responsabilità” non è un’evoluzione del mito lovecraftiano, ma la sua negazione più radicale.
Il vero abisso, per Lovecraft, non era nell’uomo: era fuori da lui e, soprattutto, l’Abisso era indifferente all’uomo. Così come lo era Cthulhu come Lovecraft ha ben iconizzato nella ormai classica frase: “Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn.”



giovedì 25 settembre 2025

 

Ozzy Osbourne e H. P. Lovecraft: l’eco dell’orrore cosmico

 

 


 

Ci sono incontri che non avvengono mai, ma che sembrano inevitabili. Ozzy Osbourne e H. P. Lovecraft appartengono a mondi lontanissimi: il primo, figlio della working class di Birmingham, diventato la voce più riconoscibile e controversa dell’heavy metal; il secondo, Sognatore di Providence, perché solitario non era assolutamente, artefice di un immaginario letterario che ha rivoluzionato la narrativa weird horror.

Eppure, quando si ascoltano i primi album dei Black Sabbath, di cui Ozzy in origine era la voce, e si leggono i racconti lovecraftiani, appare chiaro che i loro testi condividano lo stesso oscuro respiro: l’angoscia dell’ignoto, la fascinazione per il sogno, la paura del cosmo e l’orrore indicibile, che non si può descrivere.

La connessione più diretta si trova nel brano “Behind the Wall of Sleep”, contenuto nell’album d’esordio dei Black Sabbath (1970), il cui titolo rimanda al racconto lovecraftiano Beyond the Wall of Sleep (1919). Ma le analogie non si fermano qui. Attraverso atmosfere, testi e visioni, Ozzy e Lovecraft hanno costruito due linguaggi paralleli, capaci di dare voce a una stessa intuizione: l’uomo è fragile e insignificante di fronte alle forze oscure dell’universo.

 

Lovecraft e il terrore cosmico

Per comprendere le affinità, occorre ricordare i tratti fondamentali dell’estetica lovecraftiana.

Lovecraft definiva la sua narrativa come “weird fiction”, una letteratura del perturbante, che si nutriva della paura dell’ignoto più che dell’orrore esplicito. In un passaggio celebre, il padre di Cthulhu scrive:

“La più antica e potente emozione umana è la paura, e la più antica e potente forma di paura è la paura dell’ignoto.” (Supernatural Horror in Literature, 1927)

Nei suoi racconti, il terrore non nasce dalla presenza di un mostro visibile, ma dall’idea che oltre i confini della percezione si celino forze cosmiche incomprensibili. Il cosiddetto cosmicismo è la visione filosofica che sottende la sua opera: l’universo è vasto, indifferente e ostile, e l’essere umano occupa un posto insignificante.

Questo sentimento pervade racconti come “Il Richiamo di Cthulhu” (1926), “L’Ombra su Innsmouth” (1931) o il romanzo “Alle Montagne della Follia” (1931). Non solo: i sogni giocano un ruolo essenziale nella poetica lovecraftiana, tanto da dar vita a un vero e proprio “Ciclo Onirico”, dove mondi paralleli si rivelano attraverso stati di coscienza alterati.

 


I Black Sabbath e la nascita del metal oscuro

Quando i Black Sabbath debuttarono con l’album omonimo nel 1970, il mondo del rock era ancora dominato dalla psichedelia e dal blues rock. Tony Iommi, Geezer Butler, Bill Ward e Ozzy Osbourne cambiarono le regole e trascinarono nella musica un’oscurità inedita.

Il brano d’apertura, “Black Sabbath”, con il suo riff tritonico e i tuoni in sottofondo, evocava immediatamente un’atmosfera di terrore. Ozzy cantava:

“What is this that stands before me?

Figure in black which points at me...”

Non c’erano più colori psichedelici o inni alla pace, ma visioni di presenze oscure, demoniache, oniriche. Lo stesso Geezer Butler ricordava:

“La gente andava al cinema a vedere film horror. Noi pensammo: perché non creare musica che trasmetta le stesse sensazioni?” (intervista a Rolling Stone, 2017).

Il linguaggio musicale dei Sabbath era dunque già vicino a quello di Lovecraft: entrambi puntavano a evocare un orrore indefinito, a lasciare immaginare più che a descrivere.

 


Behind the Wall of Sleep – il varco lovecraftiano

Nella follia di Ozzy riecheggia quella degli sfortunati protagonisti dei racconti di H. P. Lovecraft, eppure il collegamento più concreto tra Ozzy e Lovecraft si trova in “Behind the Wall of Sleep”, secondo brano del primo album dei Sabbath.

Il racconto lovecraftiano

In “Beyond the Wall of Sleep” (1919), Lovecraft narra la vicenda di un internato in un ospedale psichiatrico che, durante le ore di sonno, sembra trasformarsi in un essere luminoso, proveniente da un’altra dimensione. Il narratore, grazie a una macchina telepatica, entra in contatto con questo spirito e scopre un universo vastissimo, popolato da entità cosmiche. Il racconto ruota intorno a due elementi centrali: il sogno come portale-soglia verso altre realtà, e la rivelazione che la coscienza umana è solo un riflesso di energie cosmiche incomprensibili.

 

Il brano dei Black Sabbath

Il testo della canzone omonima scritto da Geezer Butler e cantata da Ozzy, recita:

“Visions cupped within a flower

Deadly petals with strange power

Faces hidden in an endless maze

With the mind they travel miles...”

Non trovo un parallelo diretto con la trama del racconto. La canzone sembra piuttosto parlare di droghe e stati di coscienza alterati, descrivendo un viaggio mentale. Tuttavia, l’eco lovecraftiano resta evidente nel titolo, e nella suggestione che la mente possa viaggiare “oltre” la realtà percepibile.

Molti studiosi della cultura metal hanno sottolineato come “Behind the Wall of Sleep” costituisca un ponte simbolico tra la letteratura di Lovecraft e la musica heavy metal. Non un adattamento fedele, ma un omaggio estetico che aprì la strada a generazioni di musicisti che avrebbero saccheggiato l’immaginario lovecraftiano con maggiore consapevolezza (Metallica, Electric Wizard, Cathedral, ecc.).

 

Al di là di questa canzone, dal titolo evidentemente lovecraftiano, i parallelismi tra Ozzy/Lovecraft sono numerosi. Se si analizza, infatti, il tema il terrore dell’ignoto, a tutti risulta evidente che Lovecraft lo teorizzava nelle sue opere mentre Ozzy lo urlava dal palco. Canzoni come Black Sabbath o Children of the Grave evocano presenze oscure e incontrollabili.

Riguardo il tema dell’alienazione cosmica troviamo in Planet Caravan e Into the Void, l’uomo che vaga nello spazio infinito e l’idea che l’universo sia troppo vasto per essere compreso è tipicamente lovecraftiana.

Che dire poi del tema onirico e delle visioni? Lovecraft ambientava interi cicli narrativi nei sogni. Ozzy cantava esperienze psichedeliche e oniriche, frutto di droghe e visioni: due vie diverse per accedere allo stesso “altrove”.

E risulta immediatamente che la follia come destino, tema principale di molti racconti di Lovecraft, ove i protagonisti spesso impazziscono di fronte alla verità cosmica ricordi un po’ proprio la vita di Ozzy. Vieppiù, i Sabbath, con testi come Paranoid non hanno fatto altro che riflettere la fragilità mentale e l’ossessione. Per non parlare di Patient n. 9 di Ozzy Osbourne.

 

Lovecraft nel metal dopo Ozzy

Il varco aperto dai Sabbath con Behind the Wall of Sleep è stato poi attraversato da molte altre band:

Metallica con The Call of Ktulu (1984) e The Thing That Should Not Be (1986);

Electric Wizard, intero filone doom con brani come Dunwich;

Fields of the Nephilim, con atmosfere lovecraftiane nei testi e nei titoli.

Ozzy non proseguì su quella linea in modo sistematico, ma la sua voce resta il primo grido metal che abbia evocato l’universo lovecraftiano.

Ozzy Osbourne e H. P. Lovecraft non hanno mai condiviso lo stesso linguaggio, né le stesse fonti. Il primo guardava al cinema horror e al vissuto psichedelico; il secondo, alla letteratura fantastica e alla filosofia dell’ignoto. Ma entrambi hanno cercato di dare forma allo stesso sentimento: l’orrore di fronte a un universo che ci supera.

Behind the Wall of Sleep rimane il simbolo di questo incontro mai avvenuto, un titolo che unisce la voce del metal e la penna del weird, e che dimostra come la cultura popolare e la letteratura possano incontrarsi nei corridoi oscuri della nostra immaginazione.

mercoledì 20 agosto 2025

 La Creatura di Gyeongseong e L’Orrore di Dunwich



Oggi nasceva H. P. Lovecraft. Oggi nasceva un mito che ha solcato i secoli, è proprio il caso di dirlo, per declinarsi in decine, se non centinaia di narrative. 

Ed ecco che lo ritroviamo, ancora una volta, in La creatura di Gyeongseong, a cui abbiamo già dedicato un post il mese scorso. La serie tv si distingue per la sua miscela di horror, storia e dramma umano. Una delle chiavi di lettura più affascinanti della serie è il suo possibile legame con l’opera di H.P. Lovecraft, in particolare con L’orrore di Dunwich e il rapporto tra Lavinia Whateley e la creatura mostruosa generata dall’unione con l’entità ultraterrena Yog-Sothoth.





Nel racconto lovecraftiano, Lavinia Whateley è una figura di madre tragica e ambigua. È descritta come una donna albina e deforme, che dà alla luce non solo un figlio umano, Wilbur, ma anche una creatura mostruosa, frutto di una sinistra unione con Yog-Sothoth, entità cosmica e aliena. Questo legame rappresenta la fusione tra l’umano e l’ignoto, il naturale e il sovrannaturale, con tutte le implicazioni di perdita d’umanità, paura e mistero.

In La creatura di Gyeongseong, assistiamo a una dinamica simile, seppur contestualizzata in un contesto storico e culturale completamente differente. La madre di Yoon Chae-ok è trasformata in una creatura mostruosa a seguito di esperimenti scientifici segreti, riflettendo l’orrore della manipolazione genetica e del colonialismo. Questo legame madre-figlia, intriso di amore ma segnato dalla mostruosità, echeggia la relazione tra Lavinia e la sua creatura, ponendo in luce il tema universale della maternità come fonte di vita ma anche di orrore.

Uno degli aspetti più significativi nel confronto tra le due opere riguarda l’origine dell’orrore. Lovecraft inserisce l’orrore in un contesto sovrannaturale e cosmico, dove entità antiche e incomprensibili dominano la realtà. L’Orrore di Dunwich nasce dalla magia, dall’occulto e dal rapporto con divinità aliene, che trascendono la comprensione umana.




La creatura di Gyeongseong, invece, sposta la radice dell’orrore verso la scienza e la storia: esperimenti genetici e la realtà brutale dell’occupazione giapponese della Corea negli anni ’30. L’orrore qui diventa più tangibile, più “storico”, eppure altrettanto profondo e perturbante. La creatura rappresenta non solo la paura ancestrale, ma anche la conseguenza di azioni umane, di violenza e dominio.

Entrambe le narrazioni esplorano la tensione tra umanità e mostruosità, ma lo fanno da prospettive diverse. Lavinia Whateley è vittima e complicata custode di un segreto oscuro che sconvolge i confini tra ciò che è umano e ciò che non lo è. Nella serie coreana, la madre di Chae-ok diventa un simbolo del dolore collettivo e personale, un ponte tra passato e presente, umano e altro.




La maternità, in entrambi i casi, si fa metafora del legame indissolubile con la creatura dell’orrore. Un legame che non si limita alla biologia, ma abbraccia la paura, la perdita e l’accettazione di ciò che non può essere controllato.

Quindi, pur nelle loro differenze, La creatura di Gyeongseong e L’Orrore di Dunwich condividono una profonda esplorazione delle dinamiche tra umano e mostruoso, tra amore e terrore. La serie coreana non è una semplice trasposizione del mito lovecraftiano, ma una rielaborazione che unisce l’orrore cosmico con le tragedie storiche, la scienza e le tensioni culturali.

Il legame tra Yoon Chae-ok e sua madre si configura così come una potente metafora contemporanea del conflitto tra identità e oppressione, tra il desiderio di preservare ciò che ci rende umani e la paura dell’ignoto che ci trasforma.

mercoledì 23 luglio 2025


La Creatura di Gyeongseong e H. P. Lovecraft



A prima vista, La creatura di Gyeongseong e l’universo letterario di H. P. Lovecraft potrebbero sembrare lontani: l’uno una serie TV coreana ambientata nella Seul coloniale del 1945, l’altro un corpus narrativo statunitense degli anni ’20 e ’30 incentrato su culti alieni, conoscenze proibite e mostri ancestrali. Eppure, dietro il velo della superficie si cela un’inaspettata consonanza.

Eppure entrambi  esplorano l’orrore dell’ignoto, il limite della conoscenza, la decadenza dell’umano e la follia come risposta al contatto con l’inspiegabile. Non siamo solo davanti a creature mostruose: siamo al cospetto dell’abisso ontologico in cui il senso dell’umano si dissolve.

In Lovecraft, mostri come Shub-Niggurath o Wilbur Whateley (L'Orrore di Dunwich) incarnano l'idea che l’umano sia poroso, instabile, fragile. Nella serie coreana, la creatura generata dagli esperimenti giapponesi segue un’analoga logica: è un corpo mutato, de-umanizzato, in grado di sopravvivere ma privo di volontà e identità. È un essere che non appartiene più alla nostra biologia né alla nostra etica.

“L’essere che si contorce nel laboratorio non è altro che uno specchio rovesciato dell’uomo moderno, vittima della sua stessa scienza.”

Come in Herbert West, Rianimatore, l’aberrazione nasce da un esperimento scientifico spinto oltre il limite etico, dove la morte stessa è negata. In entrambi i casi, l’orrore non è soprannaturale in senso religioso, ma biologico, razionale, meccanicistico — ed è proprio questo a renderlo ancora più terrificante.




In Lovecraft, la ricerca della conoscenza conduce all’autodistruzione: l’uomo non è fatto per conoscere i segreti dell’universo. Nella serie, l’ospedale Ongseong è una riedizione lovecraftiana forse del mito della Torre di Babele: qui si compiono esperimenti per manipolare la biologia, creare l’essere perfetto, sconfiggere la morte.

Questa "scienza deviata" ha un’eco evidente nel racconto Alle montagne della follia, dove una spedizione scopre una città antica e i resti di una razza biologicamente superiore (gli Antichi). I protagonisti vi leggono la loro storia, ma pagano con la perdita della ragione.

Se Lovecraft pone il suo orrore in città decadenti, templi sepolti, villaggi malsani come Innsmouth, Arkham, o nelle profondità oceaniche, La creatura di Gyeongseong ambienta il terrore in una Seul coloniale militarizzata, oppressa, e profondamente malata.

Nella serie sono molti i riferimenti all'epoca Lovecraftiana, soprattutto nella prima stagione. Ci sono, peraltro, anche similitudini ambientali come sotterranei oscuri come le catacombe o i laboratori lovecraftiani, l'ospedale Ongseong poi, sembra uscito proprio dalla penna del Sognatore di Providence.

Lovecraft associa il male a culti e antichi ordini, nella serie tv invece è associato a esperimenti militari e coloniali.



Un punto centrale del pensiero lovecraftiano è che l’universo è indifferente. Le sue entità non sono cattive — sono solo troppo grandi per essere comprese. L’uomo è una formica che crede di dominare il proprio mondo. Quando scopre l’orrore, impazzisce.

Nella serie coreana, questa indifferenza prende forma attraverso varie forme. La brutalità dell’Impero giapponese (che usa gli esseri umani come cavie). La creatura, priva di coscienza morale, ma nata dalla mano dell’uomo, come in Frankenstein. La perdita della memoria e dell’identità come condanna esistenziale (elemento centrale nella seconda stagione).

Lovecraft è stato definito un materialista cosmico: per lui, l’uomo non ha un posto privilegiato nell’universo. Le sue storie sono spesso letture antropologiche al negativo: mostrano come la pretesa di centralità dell’umano sia un’illusione.

La creatura di Gyeongseong, pur mantenendo una forte carica emotiva e politica (legata alla dominazione giapponese), si avvicina a un post-umanesimo critico. La creatura, figlia dell’uomo, è un nuovo stadio dell’evoluzione tragica: è ciò che accade quando la tecnologia precede l’etica.



La serie coreana  non è un semplice omaggio a Lovecraft. È una rielaborazione culturale e politica del suo orrore. Al terrore cosmico, la serie sostituisce un orrore storico, biologico e istituzionale, ma mantiene l’elemento cruciale: l’irrappresentabilità del male, l’impossibilità di comprenderlo e l’assurdità del tentativo di dominarlo.