La
popolarità di Howard Phillips Lovecraft è in costante crescita. Ha “marchiato”
il mondo con i suoi mostri: esseri indescrivibili, geometrie non euclidee e con
la sua filosofia radicalmente anti-antropocentrica che, ancor oggi nel 2025, attraversa
oggi tutti i generi e le forme artistiche. Per comodità l’evoluzione dei Miti
in tre livelli.
IL PRIMO LIVELLO
A un primo livello, gli elementi chiave dell’orrore cosmico o “lovecraftiano” comprendono: mostri disumani, indicibili, inenarrabili, provenienti da altre dimensioni che tentano di penetrare nella realtà umana (o che già esistono nel nostro mondo, ma restano nascosti); società segrete o culti; conoscenze proibite sulla storia dimenticata o indicibile del nostro pianeta e sulle entità che tali gruppi cercano di scoprire, preservare o sfruttare; grimori, tomi e manoscritti che custodiscono questo sapere; e infine i protagonisti, spesso studiosi solitari (forse gli unici veri eroi romantico-byroniani di Lovecraft), che si confrontano con tali elementi e finiscono paralizzati dalla rivelazione o spinti alla follia.
A un secondo livello, emergono gli aspetti filosofici della visione lovecraftiana. Il confronto dei protagonisti con qualcosa di radicalmente altro rivela i tratti del cosmicismo, la filosofia letteraria di Lovecraft.
“Un giorno, il ricomporre frammenti di conoscenze dissociate aprirà spaventose visioni della realtà e della nostra tremenda posizione in essa, tanto che impazziremo per la rivelazione o fuggiremo nella sicurezza di una nuova età oscura.”
Il Richiamo di Cthulhu
Queste parole introduttive di Lovecraft alludono a uno dei cardini del suo pensiero: la consapevolezza che la comprensione umana del mondo è incompleta e limitata dai nostri sensi, dalle nostre capacità e tecnologie. L’idea che millenni di sapere umano possano essere messi di fronte a qualcosa di totalmente nuovo e inconcepibile trova espressione anche in opere come Le montagne della follia ed altri.
Il concetto di mostri “indescrivibili”, incomprensibili ai sensi umani, che violano le leggi fisiche del nostro mondo e possono essere descritti solo per approssimazione, ne è quindi una diretta conseguenza. Quindi possiamo dire che la prosa di Lovecraft genera un divario tra la realtà e la sua accessibilità per noi.
La consapevolezza che non sappiamo abbastanza e che, anche se sapessimo, non potremmo comprendere, unita all’anti-antropocentrismo, costituisce il fondamento dell’orrore cosmico. L’idea che esistano entità e forze al di là della nostra comprensione, indifferenti all’umanità, genera un terrore unico: non quello dell’emozione viscerale di fronte al mostro, ma della realizzazione razionale di un fatto apparentemente scientifico.
Dei indifferenti e miti senza mitologia
Benché Lovecraft chiami a volte queste entità “dei”, è evidente che la sua opera narrativa non sia di natura mitica. I “miti” di Lovecraft non spiegano il mondo, non sono allegorie, e non hanno scopi morali. Da queste osservazioni si possono trarre alcuni punti chiave del suo approccio:
Le entità lovecraftiane sono indifferenti all’umanità; non agiscono per bene o per male.
Non esiste una gerarchia classica tra di esse, eccetto Azathoth, posto al vertice.
Sono materiali, non simboliche, sebbene incomprensibili ai sensi umani.
La loro vera natura e origine restano ignote.
Non comunicano con gli uomini; il loro unico contatto è distruttivo.
Le divinità “benevole” presenti in alcuni racconti appaiono deboli, simboli della fragilità dei sogni e delle tradizioni umane.
Per Robert M. Price, gli esseri extradimensionali o extraterrestri sono definiti “dei” o “demoni” solo perché gli esseri umani non sanno classificarli altrimenti: li venerano o li temono per dare un senso, in termini umani, a ciò che è incomprensibile.
Le fobie terrene di Lovecraft
Eppure, la paura che Lovecraft intendeva evocare nei suoi racconti non era solo filosofica. Nelle sue opere si riflettono anche le sue fobie personali, radicate in visioni politiche e culturali che all’epoca galleggiavano in tutta l’East Coast.
I Miti di Cthulhu: Le “versioni” di un universo condiviso
Questo mondo inventato da Lovecraft, la sua mitopoiesi, i suoi dèi alieni, i culti segreti e le dimensioni imperscrutabili, ricorda molto il Ciclo di Re Artù, cui tutti potevano integrare la vastità con testi che entravano subito a far parte del canone arturiano. Certo assomiglia anche a un software. Un codice che, negli anni, ha subito aggiornamenti, patch e riscritture. Ecco che quindi i Miti di Cthulhu si sono aggiornati nel tempo, non con nuove righe di codice, ma con nuovi racconti, interpretazioni e adattamenti che hanno espanso, riscritto o ribaltato la visione di Lovecraft.
Il codice sorgente
Il Codice Sorgente è l’opera originale di Lovecraft e, poco dopo, del suo “circolo” di autori: Clark Ashton Smith, Robert Bloch, Donald Wandrei, Robert E. Howard, Frank Belknap Long, August Derleth e tanti altri. Lovecraft pone le basi di tutto, la pietra angolare: un lessico comune, una filosofia, e un universo condiviso di orrori cosmici.
A creare il nome I Miti di Cthulhu, a coniare questa etichetta e a diffonderla, reinterpretando l’intero universo lovecraftiano fu proprio Derleth dopo la morte del Sognatore di Providence.
Lovecraft vs. Derleth: due mitologie a confronto
Derleth aveva trasformato Lovecraft.
Laddove Lovecraft descriveva un universo amorale e indifferente, Derleth impose una struttura morale, introducendo una distinzione tra “Elder Gods” (forze del bene) e “Great Old Ones” (forze del male), quasi a voler tradurre il cosmo in chiave cristiana.
Joshi, nella sua monumentale biografia I Am Providence, definì questi tre punti come i “grandi errori” di Derleth:
Gli dèi di Lovecraft non sono elementi naturali (fuoco, aria, acqua, terra).
Non esiste una divisione tra bene e male.
Il mito non ha nulla di cristiano.
In questo senso, possiamo dire che esistono due “Miti” paralleli, anche se rabbrividisco a metterli sullo stesso piano.
C’è l’insignificanza cosmica dei Miti di Lovecraft.
E c’è la revisione moralistica dei Miti di Derleth.
Un canone impossibile
A complicare tutto c’è la questione del canone. Quali racconti fanno davvero parte dei Miti di Cthulhu?
Nel 1972, lo scrittore Lin Carter provò a stabilire dei criteri: per appartenere ai Miti, un racconto doveva ampliare l’universo, non solo citarlo. Tuttavia, lo stesso Carter finì per escludere testi fondamentali come “Il colore venuto dallo spazio” oggi considerato una delle opere più rappresentative di Lovecraft da cui è stato tratto un film diretto da Richard Stanley e il primo volume de I Miti di Arkham.
A quasi un secolo di distanza, non esiste ancora un consenso: ogni autore, editore o fan community costruisce il proprio “canone lovecraftiano” a modo suo. È un universo in continua mutazione, dove la coerenza lascia spazio alla contaminazione creativa.
In ogni modo H. P. Lovecraft non creò solo una mitologia caotica nel vero senso della parola, ma creò un linguaggio del terrore filosofico, che altri — Derleth, Smith, Howard e poi intere generazioni di autori e registi — hanno continuato a tradurre, aggiornare e, a volte, tradire.
IL SECONDO LIVELLO
Va detto subito che dopo la morte di Lovecraft, il suo universo non si spense, tutt’altro, si moltiplicò.
L’orrore cosmico uscì progressivamente dalle pagine dei racconti per insinuarsi nel cinema, nei fumetti, nei videogiochi, nei boardgames e perfino nei giochi di ruolo. Il mito si espanse e, come ogni organismo in evoluzione, cominciò a selezionare e adattare i propri geni narrativi.
Questo nuovo ciclo di vita si muove su due fronti principali:
1 le “remediazioni”, cioè le trasposizioni delle opere originali in altri media;
2 le nuove creazioni “lovecraftiane”, opere ispirate più allo spirito che alla lettera del Mito.
Le prime metamorfosi arrivano già nel 1945, quando The Dunwich Horror diventa un radiodramma.
Negli anni ’50 Lovecraft approda nei fumetti con Experiment… in Death, liberamente ispirato a Herbert West: Reanimator, e nel 1963 esce The Haunted Palace di Roger Corman, ufficialmente tratto da Poe, ma in realtà basato su The Case of Charles Dexter Ward.
Sono adattamenti “fedeli” nel senso più letterale: trasportano i racconti da un media all’altro senza snaturarne il significato originario. Più tardi arriveranno documentari, graphic novel e persino opere in cui Lovecraft stesso diventa personaggio di finzione, un autore che si ritrova perseguitato dalle sue stesse creazioni.
Ma il vero Secondo Livello dei Miti di Cthulhu non è la riproduzione quanto la rielaborazione.
Le nuove opere non si limitano a citare Lovecraft, lo usano come linguaggio, come codice da decifrare e reinventare. Da qui nasce la necessità di distinguere due grandi linee di analisi:
1 Connessione esplicita o implicita con i Miti originari (toponimi, creature, tropi riconoscibili).
2 Uso della filosofia del cosmicismo (l’indifferenza del cosmo, il terrore dell’ignoto) oppure del lore, cioè del “vocabolario” mitico di dèi, culti e libri proibiti.
Da un lato ci sono opere che aderiscono direttamente al canone, come il videogioco Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (2005), che ricrea The Shadow Over Innsmouth con fedeltà maniacale: le strade umide, i volti anfibi, la chiesa di Dagon.
Dall’altro lato troviamo opere che si muovono in modo più sottile, evocando Lovecraft senza nominarlo — come Underwater (2020) di William Eubank, dove i lavoratori di una base abissale scoprono una creatura ciclopica e antica quanto il tempo. Non si parla mai di Cthulhu, ma il suo respiro è ovunque: negli abissi, nel silenzio, nella consapevolezza che l’uomo è irrilevante.
Filosofia vs. lore
Questo asse permette anche un’altra osservazione interessante: le arti “passive” (letteratura, cinema, televisione) tendono a lavorare sulla filosofia del cosmicismo, cercando di riprodurne l’atmosfera e le idee.
Le arti “interattive” (videogiochi, giochi da tavolo), invece, preferiscono manipolare il lore, i segni riconoscibili del mito — Necronomicon, Cthulhu, Innsmouth — come pezzi di un sistema ludico.
Il risultato è spesso paradossale: i videogiochi, pur evocando Lovecraft, finiscono per tradurre l’orrore cosmico in numeri e regole, scontrandosi con la natura stessa del media, fondato sulla razionalità e la possibilità di vincere. Il terrore dell’incomprensibile diventa un livello da superare.
Quello che è certo è che ormai siamo di fronte a un ecosistema in continua espansione, dove ogni nuova opera rimescola i geni dei Miti, spesso senza rendersene conto.
IL TERZO LIVELLO
Oggi dopo decenni di adattamenti e appropriazioni, l’universo lovecraftiano torna a guardarsi allo specchio. È il momento della riflessione e della critica, del confronto con l’uomo dietro il mito, con Howard Phillips Lovecraft e i suoi demoni, non più cosmici ma umani.
In questa nuova versione, gli autori contemporanei usano il Mito non per espanderlo, ma per metterlo in discussione: per rivelarne le ombre ideologiche, il razzismo, la misoginia, la paura dell’altro che permeava la visione del mondo in quel contesto storico sulla East Coast.
Quindi Lovecraft diventa personaggio
Nei romanzi The Night Ocean (Paul La Farge, 2017), Lovecraft Country (Matt Ruff, 2015) e nella trilogia The Courtyard / Neonomicon / Providence (Alan Moore e Jacen Burrows, 2003–2017), Lovecraft non è più un autore onnipotente: è un personaggio fragile, ambiguo, talvolta colpevole.
Le sue lettere, le sue ossessioni, i suoi pregiudizi diventano materia narrativa.
In The Night Ocean, il rapporto tra Lovecraft e Robert Barlow si trasforma in una relazione affettiva, mentre in Providence Moore fa interagire Lovecraft con i suoi stessi mostri e perfino con studiosi reali come S. T. Joshi.
È una letteratura che mette in scena la biografia come finzione, fondendo realtà e mito in un gioco di specchi inquietante.
Questa autoanalisi si accompagna a un gesto politico e culturale: tutto ciò che Lovecraft aveva escluso dai suoi racconti, la sessualità, la mescolanza razziale, la presenza femminile, torna ora come tema centrale.
Eppure, probabilmente, questa è la più grande violazione della filosofia lovecraftiana.
Lovecraft, nel suo orrore cosmico, aveva precisamente distrutto il presupposto umanistico di ogni narrativa precedente: l’idea che l’uomo sia misura di tutte le cose. Nei suoi racconti, l’essere umano non è né colpevole né redimibile, ma semplicemente irrilevante. Il suo fallimento non è morale, ma ontologico: l’universo non si accorge nemmeno della sua esistenza.
Eppure, della molta narrativa contemporanea che “rilegge” Lovecraft sembra volerlo riportare dentro un orizzonte umano, sociale, politico. Le lettere e il pensiero privato dello scrittore diventano materia narrativa; la sua biografia si trasforma in finzione e simbolo. Ma così facendo si sovverte il cuore del suo pensiero.
In The Night Ocean, Providence, Rat God o Lovecraft Country, la prospettiva cosmica viene sostituita da una prospettiva psicologica, etica o identitaria. L’orrore non viene più dall’abisso senza volto, ma dall’interno della società o della coscienza.
Si afferma che questo recupero dell’umano, con i suoi traumi, la sua memoria, la sua colpa, renda l’opera più “politica” o “responsabile”. Ma è proprio qui che avviene il tradimento: nel momento in cui si riconduce tutto all’uomo, si nega la dismisura che era al centro dell’universo lovecraftiano.
Quindi questo terzo livello non amplia i Miti ma li capovolge, forse in maniera ancor peggiore di quanto aveva fatto decenni prima Derleth.
Sento il bisogno di ricordare che, là dove Lovecraft aveva dissolto l’antropocentrismo - mostrando un mondo indifferente, dove l’uomo è un accidente biologico tra infiniti abissi - i nuovi autori ricostruiscono l’uomo come misura del male e del bene, come centro del racconto.
L’universo, che per Lovecraft non aveva volto, torna ad averne uno umano, troppo umano.
In questo senso, la “mitologia della responsabilità” non è un’evoluzione del mito lovecraftiano, ma la sua negazione più radicale.
Il vero abisso, per Lovecraft, non era nell’uomo: era fuori da lui e, soprattutto, l’Abisso era indifferente all’uomo. Così come lo era Cthulhu come Lovecraft ha ben iconizzato nella ormai classica frase: “Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn.”